TRA ARTE, VITA E STORIA
Colloquio sulla natura morta
CARLO GHIELMETTI Imponiamoci un metodo. Iniziamo a inquadrare il momento cronologico in cui sorge, nella tua pittura, la tematica della natura morta. Se non sbaglio, siamo nei primi anni Sessanta. "Esatto, le prime nature morte risalgono alla fine dell'Accademia, e sono contemporanee alla mia prima mostra, organizzata, nel 1962, alla "Galleria delle Ore" insieme ad Alberto Ghinzani e Renzo Ferrari. Lì, in effetti, c'erano delle nature morte. Erano finestre, con davanti un teschio; un oggetto che non ho più considerato, perchè molto scolastico, un po' come il manichino di legno che compariva in tutte le scuole di disegno e di pittura; sono cose che mi infastidiscono, quasi come le unghie sulla lavagna".
Da come ne parli, non sembri entusiasta di quelle opere...
"No, non è proprio così; le rivedo con piacere ma è altresì vero che non amo molto farle vedere!"
Ma perchè, se è lecito saperlo?
"Perchè erano un po' il frutto del baconismo che imperversava tra noi giovani di allora. In più, risentivano molto di una cultura figurativa milanese che dopotutto non mi è mai appartenuta, fino in fondo. Un realismo un po' turgido, tra Guttuso e Morlotti, e vicino a Franco Francese. Spero si possa comunque notare che ci fosse già qualcosa di mio, anche se questi quadri non li vedrà nessuno, in quanto erano pochi; io ne conservo ancora uno e gli altri sono sparsi qua e là".
Allora, archiviamo anche noi le prime nature morte. Dopo di quelle, però, per lungo tempo l'idea di "natura morta" cioè di oggetto assunto a immagine, è rimasta nel tuo cassetto dello studio. A parte i cappotti, le giacche, i vestiti...
"Ecco, quello che riguarda i cappotti, le giacche, i vestiti o gli abiti, è un discorso a parte. Sono soggetti che io uso tuttora con i miei studenti quando iniziano a disegnare. Tutte le cose che vengono riabitate dall'uomo, portano via con sè qualcosa dell'uomo che le ha adoperate".
Che è poi l'idea che sottende tutti i tuoi soggetti con nature morte...
"Esatto! L'idea che siano avanzi di partecipazioni umane. Ed è per questo che posso fare riferimento a soggetti mediocri, scadenti, modesti, minimi; come il piatto gà usato, le briciole del pane spezzato, il tovagliolo spiegazzato; non ho alcun bisogno di fare i grandi trionfi secenteschi per dipingere una natura morta. Anche se, oggi, per fortuna lo sappiamo tutti; dopo Morandi, basta solo una bottiglietta".
Quindi, attorno a noi ci sono migliaia di nature morte...
"Sì, io credo davvero che la natura morta più vera sia quella che ti trovi accanto in maniera casuale; siamo pieni di nature morte attorno a noi, che non mi servono solo come oggetti, ma soprattutto per capire, ad esempio, che le stoviglie da supermercato portano, una volta usate, un significato molto più alto di quello che l'oggetto è. Così pure i cappotti e le giacche appesi e appena smessi erano, e lo sono ancora, dei modelli tra i più entusiasmanti, perchè conservano il calore del corpo che c'era dentro. I vestiti sono davvero un trait d'union tra la natura morta e la figura umana".
Non possiamo, allora, non pensare ai guanti o alle scarpe di Van Gogh...
"Certo, però a Van Gogh servivano come rappresentazione di uno stato sociale. Possiamo però intenderli anche in modo diverso; oggi, difficilmente un vestito connota uno stato sociale; o meglio, esistono abiti che chiunque può indossare indipendentemente dallo stato sociale. Il significato non è dunque nelle scarpe da lavoro o nelle scarpe da sera. Semmai il significato risiede nella forma del piede e in quella dell'uomo che vi stava dentro".
Come sai, il termine "Natura Morta" ha origine dalla lingua olandese. "Stilleben" significa, infatti, "modello immoto", "natura immobile". Ma noto che le tue nature morte, almeno dagli anni Ottanta in poi, anzi, soprattutto quelle degli anni Ottanta, sono caratterizzate da un'idea di "d'après", cioè dal passaggio di qualcuno, o dal passaggio da uno stato a un altro.
"Sì, più che del passaggio, però, c'è l'idea del già usato. E non solo nella natura morta. In tutta la mia pittura, c'è questa idea del già usato; mi piace la cosa dismessa; ovvero, mi piace ciò che prima era qualcosa meglio e che poi ha conservato solo una traccia di questo meglio; iniziano a piacermi sempre di più le persone anziane, sarà perchè iniziano a piacermi i miei coetanei, ma, scherzi a parte, ora riesco a capire meglio Sutherland quando diceva che gli interessavano maggiormente le persone con le rughe, in quanto la ruga rappresenta un'orografia del volto che ti permette di leggere tutta la storia della pelle e quindi quella dell"uomo".
Mi sembra di capire, allora, che la natura morta silente ti piaccia poco.
"E' così; non mi piace l'aggettivo, e soprattutto quella rarefazione che spesso dà la natura morta silente, cioè quel distacco e quella condizione di perfezione formale; mi piacerebbe che le mie nature morte potessero essere impronta di qualcosa che è successo. Sono convinto che si potrebbe vivere circondandosi di nature morte reali; attenzione, non di oggetti, ma proprio di nature morte; basterebbe solo inquadrarle. Guardiamo solamente a quali e quanti possono essere i rapporti tra gli oggetti coi quali entriamo quotidianamente in contatto o che solo si trovano nelle nostre case. Mi piace pensare alle cose non come oggetti inanimati e quindi silenti, ma come tracce di qualcosa che prima era diverso, come avanzi di qualcosa; e non trionfi di cadaveri, come i fiori o la frutta, tipici di un certo tipo di natura morta, soprattutto antica".
Quindi, un rapporto con gli oggetti, immersi nella quotidianità. Anzi nella tua quotidianità.
"Sì, in una quotidianità dimessa, ma non quella di tutti. é solo la mia, quella che mi sta attorno".
Tanto più che le cose che dipingi sono legate alla tua vita personale e privata...
"Sì, ad esempio, la poltrona verde ce l'avevo davvero; così il tavolo rotondo. Un tavolo dove èpassata un po' di storia, naturalmente solo la mia. E che poi è diventato il tavolo simbolico sul quale si raccolgono gli avanzi della cena, quell'après dèjeuner, quei resti di qualcosa che era meglio, che sono diventati una caratteristica della mia pittura".
Ecco, a proposito delle "partecipazioni umane" di cui si parlava prima, mi piacerebbe sapere quanto il soggetto "natura morta" ti interessa in se stesso e quanto esso è funzionale al discorso che conduci sull'uomo.
"Dal punto di vista formale, non mi interessa più di tanto. La natura morta è bella, diventa bella, quando c'è il tentativo di avvicinarsi al problema uomo. Ma, davvero, la bottiglia con la polvere nello studio, no, non m'interessa; la bottiglia mezza piena, che segnala il passaggio di qualcuno, sì".
Anche perchè ci si accorge che la tua natura morta arriva sempre oltre l'oggetto rappresentato, a differenza degli altri temi che tu hai affrontato, come i paesaggi, i soggetti sacri, o i ritratti...
"Non solo le mie; sono molte le nature morte che ci indicano l'opinione che il pittore ha dell'uomo: sto pensando a tutte le splendide nature morte gastronomiche di Manet. Sto pensando per esempio agli asparagi, alle ostriche, al limone, al coltello, oppure al panino in "Le Dèjeuner sur l'herbe", che per Manet, sembra, dovesse indicare, addirittura, la metafora della donna".
Quello che dici, allora, è la conferma di quanto scriveva Roberto Sanesi riguardo alla tua propensione verso una misterizzazione degli oggetti, e quindi a un significato altro, da quello che gli stessi oggetti dovrebbero avere.
"In genere, le nature morte portano a un significato altro da quello che è l'oggetto, malgrado ci siano tentativi di dare solo la forma e la materia della cosa rappresentata. Penso alle uova di Casorati, che sono degli ovoidi geometrici, con la loro ombra e con la tipicità del calcare che compone il guscio dell'uovo. Di certo non si sente la gallina che lo ha prodotto".
Quindi, nei tuoi quadri, ritrovi questa misterizzazione?
"Io penso di sì; ma, non mi pongo come scopo quello di mostrarlo a tutti i costi; spero che questo sgorghi da sè. Ma non c'è dubbio, che non ho dipinto mai l'oggetto di per sè; questo mai, altrimenti non avrei fatto quel tentativo di sacralizzare la natura morta, che nasce da "Gli avanzi dell'Ultima Cena" e finisce con "La cena degli angeli", che vuole essere l'immagine degli avanzi di una possibile pittura dove hanno cenato degli esseri sovrannaturali".
Quanto hai detto, mi dà ora lo spunto per farti una domanda sul processo creativo dei tuoi quadri; tu affermi che non hai mai dipinto l'oggetto di per sè; speri altresì che il significato di questo oggetto possa sgorgare da solo. Ma quando tu dipingi una natura morta, non pensi, in origine, al significato che questa natura morta potrà comunicare?
"Picasso diceva che i pittori non dipingono mai le idee, ma dipingono solo le cose. Io la penso allo stesso modo. Quando dipingo, non penso a niente. O meglio, non mi faccio un progetto di pensiero, anche perchè la pittura viene dalla pittura, i quadri nascono dai quadri e quindi non c'è mai una prima volta. Non ragiono a tavolino su quello che "devo" dipingere. Io vedo il quadro che voglio realizzare. Bacon, ad esempio, diceva che poteva stare seduto con gli occhi chiusi su una poltrona, per ore, a immaginarsi i suoi quadri che non ha mai dipinto come proiettati da una diapositiva su una parete. E credo proprio che sia vero. Io purtroppo ne vedo uno per volta. Che poi non riesca a farlo come lo vedo è un'altra delle mie doglianze ed è assolutamente certo; ci sono momenti che mi sembra di avvicinarmi di più, momenti di grande entusiasmo, accompagnati da momenti di frustrazione, perchè non ci sono riuscito".
Ma se la frustrazione segue sempre l'ottimismo, allora non riusciresti mai a concludere un quadro.
"No, questo no. Io mi accorgo quando un quadro è finito, cioè quando è tempo di licenziarlo. E non perchè sia bello o brutto. Però, senza alcun dubbio, quando mi metto al lavoro, il quadro è lì, lo vedo nella mia mente, lo vedo sulla parete dello studio sulla quale lo dipingerò; lo vedo con quale materiale dovrà farlo; vedo tanti particolari; ma, mi sono accorto che i migliori quadri sono sempre quelli che vengono afferrati all'ultimo momento. Ho sempre usato la metafora dell'apnea: galleggi sopra quello che vuoi cogliere, per ore, per giorni, poi trattieni il fiato, scendi giù e lo catturi, sul fondo, in apnea. Personalmente, quando dipingo, ho bisogno della quotidianità del nuotare e dell'apnea di 10 minuti".
Ma quando licenzi un quadro, nel momento che lo consideri finito, cosa ti aspetti da lui?
"Una volta finiti, i quadri hanno una vita loro. A me piacerebbe che ai miei quadri succedesse quello che succedeva tempo fa. Ad esempio, mi piacerebbe sentire che un mio collezionista ha venduto un mio quadro, e che a sua volta lo si sia rivenduto a un altro e che questo lo abbia di nuovo rivenduto e così via. Adesso si vergognano, e non lo fanno, o non me lo fanno sapere, perchè pensano che ci rimarrei male".
Un po' come era successo, per citare solo un esempio, con il ritratto di Gertrude Stein di Picasso che, invece di rimanere nelle mani della persona ritratta, è passato attraverso vari proprietari.
"Magari fosse così! Quando i miei quadri potranno avere una tale circolazione, allora potrà essere davvero soddisfatto non tanto del mio lavoro, quanto del rapporto che il mio lavoro ha col pubblico".
Ma a proposito del pubblico, quanto ti interessa il suo giudizio?
"Quando io finisco un quadro, è finito e basta; a quel punto l'opinione degli altri, a meno che non siano amici, non mi interessa molto, perchè ho sempre la sensazione di non riuscire a spiegarmi abbastanza".
Ma l'opera, come nasce, cresce di conseguenza; e, a volte, proprio attraverso le interpretazioni del pubblico.
"Caspita, come no! é così che dovrebbero crescere le opere; io però non ho mai visto una mia opera crescere. Secondo me si sono fermate all'infanzia più terribile. Ben vengano le interpretazioni diverse; anzi, la continua vitalità delle interpretazioni, è un sintomo di durevolezza nel tempo".
Tu forse sai che, nel XVII secolo, all'Accademia d'arte di Parigi, fondata da Le Brun, alla natura morta venne assegnato il più basso livello della gerarchia pittorica. Un po' come era successo, ma senza documenti ufficiali, nei nostri anni ì80, in un periodo in cui, la storia dell'arte stava, per ragioni commerciali, percorrendo altre strade. Tu in quel periodo hai dipinto molte nature morte. Mi chiedo, allora, se questa scelta era motivata da coraggio, da incoscienza, o da che altro.
"Forse c'era anche il sottile piacere della contraddizione. Dopo tutto un aspetto poco frequentato poteva essere più stimolante. Un maggior motivo di entusiasmo".
Te lo potevi permettere?
"Sì, ho fatto il professore tutta la vita per potermelo permettere. Per poter dipingere tutta la vita. E io dipingo tutti i giorni della mia vita. Ma non è un'ostentazione di impegno; anzi, è una dichiarazione di incapacità di fare tutto il resto. Certo, con questa voglia di contraddizione, non ho mai venduto tanto".
Nemmeno adesso?
"Adesso va molto meglio; ma non ho mai avuto la tentazione di dipingere di più o in modo diverso, solo perchè la richiesta è aumentata, anche se, te lo confesso, mi piacerebbe provare questa sensazione".
Schifano diceva che sei un pittore arrivato quando ti rubano i quadri. Dalì che lo eri quando usavi sempre il taxi al posto del bus. Tu, invece?
"Io invece penso che sei un pittore arrivato quando il tuo nome diventa una risposta da inserire in un cruciverba della "Settimana enigmistica"; in quel caso sei davvero diventato famoso. La mia però non è una battuta a vuoto, perchè proprio in questi giorni, in un cruciverba, ho trovato definito l'amico Tadini, in questo modo: "L'Emilio pittore e scrittore". Più seriamente, penso che sei un pittore arrivato quando riesci a vendere i quadri che non ti piacciono, quando te li portano via dalle mani, non finiti. A me non è ancora capitato nulla di tutto ciò. Soprattutto, nessuno mi ha mai tentato con grandi offerte di denaro; probabilmente sarei debolissimo e soccomberei subito! Ma a parte gli scherzi, spero sempre, ne sono candidamente convinto, di avere l'opportunità di fare i quadri migliori nel futuro".
Non dovrei dirlo, ma queste tue risposte confermano la mia opinione nei tuoi confronti; ovvero di un artista che ha sempre avuto il coraggio di godere di un'estrema libertà, seguendo senza timore il proprio cammino, e cambiando modo di dipingere, senza farsi condizionare dalle mode. E questo per un artista è un privilegio. Anzi, è forse questo che, per un artista, significa essere arrivato.
"Ti ringrazio. Non so che dire. Vorrei ricordare solo la frase che spesso mi diceva Mario Radice, e che faccio mia: "Il pittore per essere libero, deve avere un'altra professione". Lui condivideva la mia scelta per l'insegnamento; anzi, l'anteponeva, per esempio, al disegno per tessuti, perchè quest'ultima professione comportava l'uso deleterio degli stessi strumenti del pittore".
Per˜, gli anni '80, sono stati un periodo di grande edonismo, quindi era molto facile cadere in tentazione e realizzare quadri solo per il mercato. Dài, concorderai con me che non bisogna essere geni per poterlo fare. E poi, quanti ne abbiamo visti di pittori che hanno fatto questa scelta!
"Sì“, hai ragione. Ma, ripeto, non era una mia forza di carattere; non sono mai stato tentato; se sono un uomo pulito è perchè non ho mai avuto tentazioni. Mi piacerebbe averne per poter vedere come reagirei. Sai, non ci si mette molto a dire "chi se ne frega!", soprattutto quando si invecchia!; anche se, ripensandoci, non ce la farei mai, mi piace il mio lavoro, e come lo faccio; se dovessi cambiare, non mi divertirei più. Non sopporterei di venire in studio senza entusiasmo, avere degli assistenti che dipingono al posto mio e gli acquirenti fuori dalla porta".
Ci eravamo ripromessi di darci un metodo, ma abbiamo deragliato verso altri argomenti. Ritorniamo allora al tema principale. Quanto pensi sia importante avere un buon rapporto con le cose materiali per dipingere delle nature morte?
"Non me lo sono mai chiesto, forse perchè quando dipingo, non penso mai prima a quello che l'oggetto voglia significare. So soltanto che alcuni oggetti mi interessano e mi intrigano più di altri".
Come le stoviglie?
"Come le stoviglie. Mi piacciono i piatti, le fondine; mi piace il bianco della ceramica; mi piace il rumore che le stoviglie producono quando si toccano, quando si impignano, quando entrano in contatto con le posate. Certo è, e con questo spero di risponderti un po' alla domanda, che dopo un anno e mezzo di studio formale sulle stoviglie e di rimeditazione sul tema della cena, ogni volta che mi alzo da tavola, vedo le cose con un occhio diverso".
E in questo, riesci a condizionare anche le persone che vivono con te?
"Non credo, altrimenti farebbero grande attenzione, come faccio io, a come lasciare le posate sul piatto, a come disporre le briciole sulla tovaglia, e così via".
Restiamo sugli oggetti maggiormente rappresentati nelle tue nature morte. Si parlava prima delle "partecipazioni umane". La tavola della cena è simbolo di una di quelle; ma forse è il letto sfatto quello che racchiude la più forte traccia dell'uomo; un uomo fortemente inquieto. é così?
"Guarda, io ho sempre sognato di dipingere il letto sfatto, nello stesso modo in cui gli scrittori scrivono libri gialli o noir, e cioè dove gli indizi testimoniassero qualcosa che è avvenuto, e permettessero di ricostruirlo attraverso una serie di dati, che potrebbero essere le banalissime forbici aperte per terra, o il letto sfatto, o il lenzuolo spiegazzato. Inoltre, il letto sfatto è sicuramente quanto vi sia di più vicino al sudario. Anzi, il lenzuolo stropicciato è il sudario dei vivi che si associa a quell'idea secondo cui l'uomo tocca le cose e lascia la sua traccia che viene letta come il vuoto dell'anima".
Ma l'inquietudine che si ritrova nei tuoi quadri, rispecchia la tua?
"Non lo so; io so che non sto bene con me, per la sola ragione che non riesco a fare ciò che voglio. Il mio rapporto con me stesso è odioso per questo. Non mi trovo a mio agio col mio tempo, con la mia età, col mio corpo, con i miei quadri, ma devo ammettere di soffrire di un meraviglioso difetto: credo di essere ottimista senza motivazioni e a oltranza; soffro di un ingiustificato ottimismo che mi permette ogni giorno di sperare in qualcosa di più".
Quindi per dirla come Tolstoj: "Il problema è che tutto va bene".
"Non saprei trovare espressione migliore!"
Ma questo tuo ottimismo si scontra con la tua cronica insoddisfazione di pittore?
"L'insoddisfazione è un po' quella di tutti. Non penso di soffrire di una scontentezza maggiore solo perchè pittore. Io ringrazio gli dèi per questa vitalità, che non è una cosa conquistata nè conservata; il riuscire a metterla nei quadri, poi! beh non so; vorrei che i miei quadri rivelassero l'incapacità di farlo, lo sforzo di farlo e, in un centimetro quadrato, di esserci riuscito".
Non èforse vanitù, questa?
"Altrochè se lo è; lo èeccome. No, a parte gli scherzi; l'insoddisfazione che provo quando lavoro, è un'insoddisfazione vera; non è vanità; ne sia prova il fatto che la gestazione di una mia opera è costellata da molti rifacimenti, ripensamenti, rielaborazioni! No, non è falsa modestia, non sono proprio contento dei miei quadri, perchè rilevo nelle frasi di chi scrive attorno ad essi, la difficoltà di capire qualcosa. Quindi se fanno fatica loro, ne faccio anch'io".
Ma toglimi un'ultima curiosità. Perchè si dipinge la Natura Morta?
"Nei secoli in cui i pittori affrescavano ancora i muri, dipingevano solo nella bella stagione. Era il momento delle grandi storie sacre, delle grandi rappresentazioni storiche, delle grandi pitture murali. L'inverno era invece riservato per la preparazione, per il restauro degli strumenti, per lo studio, e per la natura morta. Che era la pittura della meditazione".
Anche tu, allora, dipingi le nature morte solo in inverno?
"No, perchè adesso, purtroppo, non si affresca più. Inoltre, fortunatamente, c'è il riscaldamento. Ma quando dipingo le nature morte, mi sembra di concedermi una piccola vacanza, o almeno di circoscrivere così tanto il campo da permettermi un approccio più naturale e meno violento con la pittura".